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LO SPORT PIU' BELLO DEL MONDO
In tempi di doping, taciti accordi, violenza, offese che puzzano di razzismo, il pallone che vogliamo accarezzare è quello della memoria, dei giocatori che anche per una sola partita ci regalano un sorriso, una speranza, un motivo per essere contenti, per coltivare la nostra ingenuità. Perché ci resta sempre, in fondo all'anima, quel lembo di prato verde che ci vede protagonisti di un gesto di serie A, proprio identico a quello di uno dei nostri beniamini (...). E dopo a casa ad aspettare la Domenica Sportiva di Enzo Tortora, Lello Bersani o Tito Stagno.
La storia del calcio è un triste viaggio dal piacere al dovere. A mano a mano che lo sport si è fatto industria, è andato perdendo la bellezza che nasce dall'allegria di giocare per giocare. In questo mondo di fine secolo, il calcio professionistico condanna ciò che è inutile, ed è inutile ciò che non rende. E a nessuno porta guadagno quella follia che rende l'uomo bambino per un attimo, lo fa giocare come gioca il bambino con il palloncino o come gioca il gatto con il gomitolo di lana: ballerino che danza con una palla leggera come il palloncino che se ne va per l'aria e come il gomitolo che rotola, giocando senza sapere di giocare, senza motivo, senza orologio e senza giudice.
Il gioco si è trasformato in spettacolo, con molti protagonisti e pochi spettatori, calcio da guardare, e lo spettacolo si è trasformato in uno degli affari più lucrosi del mondo, che non si organizza per giocare ma per impedire che si giochi.
Il calcio può essere una follia, un affare volgare, una fabbrica di inganni. Il calcio può essere tutto questo, ma anche molto più di questo come festa degli occhi che la guardano e come allegria del corpo che lo gioca.
Il calcio professionistico fa tutto il possibile per castrare questa energia di felicità, ma lei sopravvive malgrado tutto. E forse per questo capita che il calcio non riesca a smettere di essere meraviglioso.
Nel calcio, come in tutte le altre attività, sono molto più numerosi i consumatori che i creatori. Il cemento ha ricoperto i campi e gli spiazzi dove ognuno poteva organizzare una partitella di pallone in qualsiasi momento e il lavoro ha divorato il tempo per il gioco. La maggior parte della gente non gioca ma guarda gli altri giocare, dal televisore o dalla tribuna, sempre più lontana dal campo di gioco. Il calcio è diventato, come il carnevale, spettacolo per le masse. Ma come nel carnevale ci sono quelli che si lanciano a ballare per strada oltre a contemplare gli artisti che cantano e ballano, anche nel calcio non mancano gli spettatori che di tanto in tanto diventano protagonisti, per pura allegria, oltre a guardare e ammirare i giocatori professionisti. E non solo i ragazzini: in qualche modo, per quanto possano essere lontani i campi più abbordabili, gli amici del quartiere, i compagni di fabbrica, dell'ufficio o della facoltà si danno ancora da fare per divertirsi col pallone fino a quando cadono sfiniti, e allora vinti e vincitori bevono insieme, fumano, e condividono una bella scorpacciata, insomma, quei piaceri che agli sportivi professionisti sono proibiti.
Bisognerebbe portare il calcio, inteso come fenomeno culturale, nelle scuole. Il calcio dei poeti, dei campioni, dei narratori. Il calcio che ci regala ancora sogni, che ci porta a correre a perdifiato dietro un pallone, e non importa l'età, le fatiche le delusioni. Ci siamo noi e quella palla, in un barbaglio di giovinezza.
Un mosaico liberamente composto con magnifiche tessere di Eduardo Galeano e Darwin Pastorin, due grandi scrittori di calcio.
LA PALLA
Era di cuoio, ripiena di stoppa, la palla dei cinesi. Gli egiziani del tempo dei faraoni la fecero di paglia o di bucce di grano, e la avvolsero di tela colorata. I greci e i romani usavano una vescica di bue gonfiata e cucita. Gli europei del Medioevo e del Rinascimento si disputavano una palla ovale, imbottita di crine. In America, fatto di caucciù, il pallone divenne salterino come in nessun altro luogo. Raccontano i cronisti della corte spagnola che Hernàn Cortès fece rimbalzare una palla messicana e la fece volare a grande altezza davanti agli occhi fuori dalle orbite dell'imperatore Carlo.
La camera d'aria di gomma, gonfiata soffiando e ricoperta di cuoio, nacque a metà del secolo scorso grazie all'ingegno di Charles Goodyear, un americano del Connecticut. e grazie all'ingegno di Tossolini, Valbonesi e Polo, tre argentini di Cordoba, nacque molto dopo il pallone senza cuciture. Inventarono la camera con la valvola che si gonfiava per iniezione, e dal Mondiale del 1938 fu possibile colpire di testa, senza farsi male con lo spago che prima teneva insieme il pallone.
Fino a metà di questo secolo, il pallone fu marrone. Poi bianco. Ai giorni nostri brillano modelli cangianti, in nero su fondo bianco. Ora ha una circonferenza di settanta centimetri ed è rivestito di poliuretano su schiuma di polietilene. E' impermeabile, pesa meno di mezzo chilo e viaggia più rapido del vecchio pallone di cuoio, che diventa impossibile nei giorni piovosi.
Lo chiamano in molti nomi: il pallone, la sfera di cuoio, l'attrezzo del mestiere, il proiettile.
In Brasile, al contrario, nessuno dubita che sia femmina. I brasiliani la chiamano grassottella, rotondetta, la chiamano bambina, piccolina, e le danno nomi propri, come Maricota, Leonor o Margarita. Pelè la baciò al Maracanà quando segnò il suo gol numero mille e Di Stefano le innalzò un monumento all'ingresso della sua casa, una palla di bronzo con una targhetta che diceva: GRAZIE VECCHIA MIA.
Eduardo Galeano - Splendori e miserie del gioco del calcio - Sperling & Kupfer - 1997 - PP 252 - euro 11,50
L'ARBITRO
Quell'uomo che deve decidere, in una frazione di secondo, un rigore, un fuorigioco, un fallo. E su di lui, calciatore mancato, le gente degli spalti sfoga i malumori di una settimana, la rabbia per una sconfitta.
Nel calcio esistono tante solitudini diventate letterarie. Ma l'uomo veramente solo è lui, quell'arbitro che, quando indossa la divisa gialla, ti fa sorridere.
In loro vi è sempre una malinconia mai rivelata: per gli inizi difficili, per esempio, in campi senza protezione, senza forze dell'ordine, con ragazzi imberbi in balia di padri inferociti, di dirigenti invasati, di giocatori violenti e irrispettosi. In molti mostravano sul volto le cicatrici di pugni, bottiglie, pietre. Storie assurde: dopopartita chiusi, per ore, nello spogliatoio, fughe dentro i bagagliai di auto come in certi film di spionaggio, la voglia di dire basta. A cosa serve rischiare la vita per poche lire, nessuna fama e quel nome spesso storpiato nel tabellino delle formazioni su un giornale locale? Ma uno non nasce arbitro per caso, è una scelta precisa, di passione e martirio, è credere nella giustizia, nelle regole. E, così, quegli uomini soli decidono di andare avanti, sognando di arrivare in serie A o di dirigere una finale di Coppa del Mondo, come è accaduto a Pierluigi Collina in Giappone.
Proverò sempre tenerezza per quei giovani che, ancora oggi, vanno ad arbitrare in trincea, protetti solo del loro coraggio. Giovani che la domenica rinunciano alla gita fuori porta o al cinema con gli amici per dare inizio, in perfetto orario, a quel rito laico. Senza l'arbitro non avrebbe senso il calcio: è possibile giocare senza portiere o centravanti, non senza quell'uomo che corre, corre e corre senza mai poter toccare la palla. Segnare. E poter ricevere, almeno una volta, un applauso sincero. Un applauso lungo. Un applauso da far venire i brividi.
[Darwin Pastorin - Lettera a mio figlio sul calcio - Mondadori - Novembre 2002 - PP 126 - euro 7,80]
L'arbitro è arbitrario per definizione. E' lui l'abominevole tiranno che esercita la sua dittatura senza possibilità di opposizione, l'ampolloso carnefice che esercita il suo potere assoluto con gesti da melodramma. Col fischietto in bocca, l'arbitro soffia i venti della fatalità del destino e convalida o annulla i gol. Cartellino in mano, alza i colori della condanna: il giallo, che castiga il peccatore e lo obbliga al pentimento, e il rosso che lo condanna all'esilio.
I guardialinee, che aiutano ma non comandano, guardano da fuori. Solo l'arbitro entra nel campo di gioco e giustamente si fa il segno della croce al momento di entrare, appena si affaccia davanti alla folla ruggente. Il suo lavoro consiste nel farsi odiare. Unica unanimità del calcio: tutti lo odiano. Lo fischiano sempre, non lo applaudono mai.
Nessuno corre più di lui. E' lui l'unico obbligato a correre tutto il tempo. Tutto il tempo galoppa, sfiancandosi come un cavallo, questo intruso che ansima senza sosta tra i ventidue giocatori e, come ricompensa di questo sacrificio, la folla grida chiedendo la sua testa. Dal principio alla fine di ogni partita, in un mare di sudore, l'arbitro è obbligato a inseguire la palla bianca che va e viene tra i piedi altrui. E' evidente che gli piacerebbe giocare con lei, ma questa grazia non gli è mai stata concessa. Quando la palla, per caso, gli colpisce il corpo, tutto il pubblico rivolge un ricordo a sua madre. E senza dubbio, pur di stare lì, nel sacro spazio verde dove il pallone gira e vola, lui sopporta insulti, proteste, sassate e maledizioni.
A volte, rare volte, qualche decisione dell'arbitro coincide con la volontà del tifoso, ma neppure così riesce a provare la sua innocenza. Gli sconfitti perdono per colpa sua e i vincitori vincono malgrado lui. Alibi per tutti gli errori, spiegazione di tutte le disgrazie, i tifosi dovrebbero inventarlo se non esistesse. Quanto più lo odiano, tanto più hanno bisogno di lui.
Per più di un secolo l'arbitro ha portato il lutto. Per chi? Per se stesso. E ora lo nasconde con i colori.
[Eduardo Galeano - Splendori e miserie del gioco del calcio - Sperling & Kupfer - 1997 - PP 252 - euro 11,50]
Lo sai perchè i giocatori vanno a protestare per i falli e certe volte si prendono un cartellino rosso? No, non lo sai, e nemmeno loro lo sanno. E' un eredità che hanno ricevuto dalla notte dei tempi e rispettano quel rito senza nemmeno domandarsi da dove venga.
Adesso ti spiego: ai miei tempi, il povero arbitro aveva solamente il fischietto e le mani. Non portava nemmeno il fazzoletto. Le regole dicevano che se ti indicava l'ingresso del tunnel con il braccio teso, era espulsione. Ti cacciava di autorità, con un gesto, e a volte doveva fare il duro e metterti fuori a spintoni.
Certo, il regolamento era un po più semplice di adesso: mani era mani e lo fischiava anche se il pallone ti colpiva casualmente.
Un fallo era un fallo e valeva una punizione o un rigore, mica la regola del vantaggio e tutte quelle cose che se vai allo stadio con la ragazza gliele devi spiegare dieci volte.
In fuorigioco ti ci trovavi sempre, capisci? Se non avevi tutto lo schieramento della fanteria al completo dietro di te quando ricevavi la palla, era fuorigioco. Altro che se quando ti lanciano il passaggio ti trovi sulla stessa linea o un passo indietro. Il replay non esisteva e i fotografi usavano macchine con li soffietto. Il fuorigioco era sacrosanto e per quello gli attaccanti venivano su così bravi.
Se ti scappava una parolaccia, se insultavi la madre dell'arbitro o se appendevi un avversario alla recinzione, lui fischiava, indicava l'entarta degli spogliatoi e tu eri perduto.
L'unica possibilità di cavarsela era affrontarlo prima che eseguisse il gesto fatale e afferrargli il braccio per impedirgli di alzarlo, ripiegarglielo sulla spalla, qualunque cosa.
Nel parapiglia, perso per perso, chiedevi perdono, facevi promesse, recitavi il Padre Nostro, qualunque cosa potesse commuoverlo. Bisogna essere veloci e stare molto attenti perchè immediatamente arrivava un avversario e anche lui si metteva a strattonare, ma per liberarlo in modo che ti potesse fregare. Qualcuno usciva dalla ressa con una mano rotta o la spalla contusa.
[Osvaldo Soriano - Fùtbol (memorie del mìster) - Einaudi Tascabili Letteratura - 2003 - PP 214 - euro 8,50]
IL CALCIO DI RIGORE
Senti, ai miei tempi un cannoniere difficilmente sbagliava un rigore. Sarebbe stata una vergogna. Gli sarebbero venuti addosso più complessi che se si fosse addormentato la notte delle nozze. Mi ricordo Cirillo Renzati, terzino e capitano della mia squadra. Ti parlo del '37 o del '38, tu non eri ancora nato. Renzati ci insegnava: "Il rigore si batte forte, basso e di lato. Avete capito? Forte, basso e di lato, e così si segna. Se non si rispetta uno dei tre requisiti, c'è il pericolo di trasformare il portiere in un eroe". Renzati si sforzava di far entrare questa regola nella testa dei "pulcini" e cercava anche di incitare i portieri del club a parare i tiri degli avversari che non arrivavano come lui prevedeva. Era il tempo in cui non erano stati inventati i cartellini gialli e rossi per l'arbitro. Le punizioni venivano discusse perchè c'erano grandi possibilità di farle cambiare.
Arriva al club un certo Jara, che era un Campione a Villa Crespo, e si fa conoscere con un debutto pieno di finezze: tunnel, colpi di tacco, finte e un gol in diagonale quasi da manuale. Le due squadre giocarono fortissimo, quel giorno, e arrivammo oltre il 40simo del secondo tempo con il punteggio sul 3 a 3. Immagina la scena: a un tratto io scavalco la difesa, tiro verso l'angolo che mi sta più vicino e un difensore devia con la mano. L'arbitro ci da il rigore subito e senza farsi pregare perchè giocavamo in casa e c'erano 30mila persone e 6 radio sul campo.
Jara non ci conosceva nemmeno, noi che eravamo i suoi nuovi compagni, ma gli era stato subito chiaro che in campo a comandare era Renzati, per cui raccolse la palla con la sinistra e gliela consegnò personalmente, come se portasse una torta in regalo. Nessuno si aspettava quello che sarebbe successo subito dopo. Renzati lo chiamavano el Carnicero, il Macellaio, per via del suo modo di lavorarsi l'avversario alle gambe; era tirchio e gestiva un locale di tango e puttane in calle Paraguay. Qualcosa del genere. Quando arrivava all'allenamento, magari gli dicevi "come va, Cholo" (quel Cholo era una parola che usavamo tra amici) e lui ti rispondeva con un grugnito. Se pure ti rispondeva. Per questo nessuno capì il suo atteggiamento. Arrivò dove l'arbitro aveva contato i dodici passi e restituì la palla al giovane Jara: - Dài, battilo tu - gli disse, e venne fuori dall'area come se stesse uscendo dal bagno. Ci siamo resi conti, tutti quanti, che non gli stava facendo un favore.
Jara mise giù la palla venti centrimetri più avanti di dove indicava l'arbitro e si beccò un'ammonizione. Andammo tutti a protestare: noi per fargli misurare di nuovo la distanza e gli avversari per innervosire Jara. Sembra una balla, ma all'epoca era impossibile segnare il punto del rigore una volta per sempre. Lo sai perché? L'erba quasi non cresceva e la calce si cancellava con la rugiada. A ogni partita il canchero (quello che tiene in ordine il campo, ma non so come li chiamano oggi che hanno la pubblicità pure sui calzettoni) doveva ridipingere tutto da capo. E' chiaro, l'arbitro misurava gli 11 metri facendo 12 passi nè troppo lunghi nè troppo corti. Non puoi immaginare com'erano emozionanti quei passi! Altro che Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco! Il portiere protestava perchè i passi erano troppo corti quello che doveva battere il rigore perchè erano troppo lunghi... A volte le discussioni erano così violente che dovevano intervenire i guardialinee a misurare anche loro, e veniva su uno di quei bordelli che non ti dico.
Jara prese il pallone, si scostò dalla parte sinistra e, te lo giuro, è stata un vera magia. mandò a cacare tutti i consigli di Renzati. Andò incontro verso il pallone camminando, colpì in diagonale e lo mandò a sbattere sotto la traversa. Il pallone rimbalzò a terra, passò sopra il portiere, prese un palo, percorse veloce la riga e andò a sfiorare l'altro palo, fece diversi giri sullo stesso punto, proprio come una trottola, e poi si infilò per mezzo metro.
Il giorno dopo, durante l'allenamento, tutti lo prendevano in giro, gli dicevano che aveva avuto una fortuna vergognosa. Allora battè di nuovo il rigore. Per tre o quattro volte. E moriva dal ridere. Naturalmente, non l'hanno mai più lasciato tirare un rigore, e a quanrto ne so io per anni ha continuato a tirarli Carnicero Renzati.
Forte, basso e di lato
[Osvaldo Soriano - Fùtbol (memorie del mìster) - Einaudi Tascabili Letteratura - 2003 - PP 214 - euro 8,50]
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